Locazione

I canoni di locazione al tempo del COVID 19

Avv. Alessandro Pietrangeli

La pandemia ha colto di sorpresa anche le loca-zioni commerciali.
L’emergenza sanitaria ha co-stretto il Governo Italiano ad intervenire pe-santemente sulle attività imprenditoriali.
Attra-verso il DPCM il Presidente del Consiglio ha im-posto la chiusura degli esercizi commerciali. Con il decreto cura Italia il Governo Italiano ha provato a fornire un primo supporto alle moltis-sime imprese che hanno dovuto interrompere la propria attività lasciando dietro di sé diverse lacune.
Il primo tassello posto in essere dal DPCM si è limitato ad assegnare al conduttore il solo cre-dito d’imposta pari al 60% del canone di marzo (previsto dall’articolo 65 del Dl 18/2020 per i soli locali in C/1 e, secondo la circolare 8/E di venerdì scorso, condizionato al pagamento del ca-none). Nei prossimi giorni l’annunciato “Decreto Aprile” dovrebbe fornire una più ampia serie di interven-ti in parte anche destinati a colmare le lacune lasciate dal DCPM di marzo.
Ad oggi, purtroppo, i problemi per il conduttore imprenditore restano.

Proviamo ora a fornire al piccolo imprenditore, costretto alla chiusura del proprio esercizio, alcuni suggerimenti volti a gestire il rapporto con la proprietà immobiliare.
Tra la principale difficoltà che il Coronavirus ha determinato spicca l’impossibilità di onorare il canone di locazione.

Come aiutare i piccoli imprenditori a gestire le conseguenze del coronavirus sotto il profilo con-trattuale?
Partiamo da un presupposto, a questo punto ine-quivocabile, secondo il quale è possibile ritene-re il COVID 19 un evento sopraggiunto nelle dina-miche contrattuali e, la comune opinione, classi-ficabile come un fatto imprevedibile o inevitabi-le all’atto della stipula del contratto di loca-zione.
Dato la natura di evento imprevedibile o inevita-bile il Coronavirus impone ai contraenti una pro-fonda riflessione sulle conseguenze future del rapporto contrattuale.
A mio modo di vedere sono possibili le seguenti ipotesi:
1) Il conduttore sospende il canone;
2) Il conduttore invoca la risoluzione adducendo il verificarsi di un avvenimento imprevedibile e tale da rendere la prestazione eccessivamente onerosa;
3) Il conduttore chiede una riduzione del canone per sopraggiunta impossibilità della prestazio-ne;
4) Il conduttore esercita il recesso con preavvi-so.

Nell’ipotesi n. 1 il conduttore si autodetermine-rebbe nella scelta di non adempiere al versamento del canone esponendosi all’azione giudiziaria da parte del proprietario che avrebbe dalla sua le disposizioni contrattuali a suo tempo sottoscrit-te.
In questo caso si aprirebbe un lungo e di-spendioso contenzioso tra le parti dall’esito in-certo per il conduttore.
Nell’ipotesi n. 2 il conduttore assume che l’evento abbia determinato conseguente tali da non consentire la prosecuzione del rapporto e, quindi, di non poter più adempiere alle obbliga-zioni contratte.
In tal caso, spetterebbe al con-duttore dimostrare che l’evento imprevedibile renda la prestazione (canone) eccessivamente gra-vosa.
Anche in questo caso è possibile ipotizzare la strada del contenzioso nel quale il Tribunale sarà chiamato a verificare se l’evento siano tale da superare anche il c.d. rischio d’impresa tipi-co dell’attività imprenditoriale.
Attesa la natu-ra inedita del virus è ipotizzabile la prevalenza della eccessiva onerosità della prestazione sul c.d. rischio d’impresa e, quindi, il determinarsi di una possibile risoluzione contrattuale.
Nell’ipotesi n. 3 il conduttore confidando nella ripresa dell’attività e con l’obiettivo di evita-re un contenzioso dagli esiti incerti visto l’evento del tutto inedito, propone alla proprie-tà una rimodulazione del canone di locazione.
In caso di adesione della proprietà, le parti inte-greranno il loro originario rapporto contrattuale riducendo il canone per un dato periodo di tempo.
Nell’ipotesi n. 4 il conduttore esercita il di-ritto di recesso per intervenuti gravi motivi.
Per esercitare il diritto ora esaminato occorre inviare al locatore, almeno sei mesi prima della data alla quale il recesso dovrà avere effetto, un preavviso che indichi il Coronavirus Covid 19 quale grave motivo, a pena di validità del reces-so stesso (articolo 27 legge 392/1978). Sul punto non sarà molto difficile al conduttore dimostrare che il Coronavirus e i successivi DPCM che hanno imposto chiusura dell’attività commerciale costi-tuiscano i gravi motivi tali da rendere estrema-mente difficoltosa la prosecuzione del contratto.
Alcuni colleghi ritengono possibile richiamare anche l’ipotesi di cui all’articolo 1256 del Co-dice civile, secondo cui l’obbligazione si estin-guerebbe quando, per motivi non imputabili al de-bitore, la prestazione diventa impossibile.
A mio modesto avviso come nella precedente ipotesi di recesso, anche in questo caso potrebbe rivelarsi agevole per il conduttore dimostrare che la pan-demia e i conseguenti provvedimenti abbiano de-terminato l’impossibilità della prestazione e de-terminare la risoluzione del contratto.
Concludo la mia esposizione ricordando a tutti che ci troviamo difronte ad un evento del tutto inedito che inciderà profondamente nei rapporti contrattuali senza far intravedere certezze in tema di tutela dei diritti.
Per evitare di rima-nere coinvolti in un giudizio lungo, dispendioso e dall’esito oggi incerto, suggerisco vivamente ai contraenti di raggiungere un accordo avente ad oggetto la rimodulazione della prestazione econo-mica e l’adattamento temporale della prestazione riorganizzata.
Solo in questo modo si lascerà all’imprenditore la possibilità di ripartire e al proprietario quella di mantenere una fonte di profitto.
Ricordo che l’eventuale rimodulazione dovrà esse-re formalizzata in un contratto integrativo dell’originario che, sebbene non imposto, si sug-gerisce di comunicare all’Agenzia delle Entrate (attraverso il modello c.d. 69 in via cartacea ovvero a mezzo Pec).
L’adempimento ora descritto fornisce alla proprietà uno strumento provvisto di data certa utile in caso di eventuale accerta-mento da parte dell’Agenzia delle Entrate in tema di canoni da locazione.

FOCUS

I LIMITI IMPOSTI ALLA DETERMINAZIONE DEL CANONE DI LOCAZIONE NELLE IPOTESI DI EDILIZIA AGEVOLATA-CONVENZIONATA

Avv. Alessandro Pietrangeli
Dott. Gabriele Lorizio

Di seguito si riporta un parere reso a un soggetto titolare del diritto superficie di un immobile sito in Roma in un complesso edificato in regime di edilizia agevolataconvenzionata, il quale si vedeva recapitare una richiesta di ripetizione delle somme che il conduttore della predetta unità abitativa asseriva di aver pagato in eccesso a titolo di canone di locazione. La redazione del presente parere si è rivelata un’occasione per approfondire e fare luce sul coacervo normativo e giurisprudenziale che regola la materia e per tale motivo ci sembra interessante pubblicare alcuni estratti della ricerca condotta.

Il caso
Secondo il conduttore, l’appartamento risultava riconducibile a un complesso edilizio edificato in regime di edilizia agevolata-convenzionata per cui sussisterebbero dei limiti al canone massimo di locazione in forza del combinato disposto dall’art. 35 della L. 865/1971, della sentenza della Corte Costituzionale n. 155/1988 e della Convenzione Urbanistica stipulata tra il Comune di Roma ed il costruttore, una Spa. Sempre ad opinione del conduttore la somma dallo stesso versata ininterrottamente a far data dall’anno 2010 pari all’importo di € 950,00 mensili a titolo di canone locatizio risulterebbe superiore al dovuto in quanto non sarebbero stati rispettati i limiti previsti dalla legge in materia di edilizia agevolata-convenzionata. In virtù di quanto riferito, il conduttore conclude avanzando, appunto, una richiesta di restituzione delle somme dallo stesso giudicate non dovute e una riduzione del canone nella misura di circa € 500,00 mensili, fino alla scadenza naturale del contratto.
La normativa richiamata dal conduttore risulta piuttosto complessa e variegata. In particolare, l’art. 35 della L. 865/1971 disciplinerebbe, tra le altre, le ipotesi di convenzioni P.E.E.P (Piano Edilizio Economico Popolare) aventi ad oggetto la cessione del diritto di superficie, come nel caso che ci riguarda.

Esame dei documenti
Preliminarmente, occorre verificare se l’atto di proprietà del titolare del diritto di superficie, rivoltosi al nostro studio per una consulenza, contenga un richiamo alla Convenzione Urbanistica stipulata tra il Comune di Roma e il costruttore, così come invocato dal conduttore. A giudicare dai documenti in nostro possesso (atto di provenienza del precedente proprietario, atto di proprietà del nostro cliente, visura ipotecaria dell’immobile in oggetto e Convenzione) nell’atto di provenienza del precedente proprietario emerge un chiaro riferimento a una convenzione stipulata tra il Comune di Roma e l’impresa costruttrice “… ai sensi dell’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 un diritto di superficie per la durata di anni novantanove ...”, che costituisce parte integrante del contratto di compravendita con cui l’avente causa acquistava il diritto di superficie sull’immobile oggetto della vicenda; nell’atto di proprietà del nostro cliente tale convenzione viene espressamente richiamata all’art. 3 “… in forza della Convenzione ricevuta dal Notaio … di Roma in data …, repertorio n ..., con particolare riguardo all’art. 3 della stessa che qui si intende integralmente riportato e trascritto, con il quale il Comune di Roma concedeva alla Società … omissis … il diritto di superficie sull’area sulla quale è stato realizzato il fabbricato di cui sono parte le sopra descritte porzioni immobiliari, per un periodo di anni novantanove rinnovabile ad istanza del concessionario o suoi aventi causa, e all’atto di acquisto di cui appresso ...”. Della convenzione appena descritta, invece, non emerge traccia dall’ispezione ipotecaria avente ad oggetto l’immobile in esame. D’altro canto, l’atto di compravendita intervenuta tra il nostro assistito (parte acquirente) e il precedente proprietario (parte alienante), risulta trascritto nei registri immobiliari, atto che, come preannunciato prima, contiene al suo interno un richiamo alla convenzione meglio indicata in precedenza.
All’esito dell’esame dei predetti documenti, è possibile ritenere che la Convenzione più volte menzionata sia parte integrante dell’atto di proprietà del nostro assistito. A dire il vero, dall’analisi dell’atto del precedente proprietario, emerge un elemento significativo. “… La parte acquirente – riporta il predetto atto – dichiara di essere a conoscenza che l’alloggio potrà essere alienato solo nel rispetto delle clausole limitative previste dalla legge di finanziamento nonché dalla legge 17 febbraio 1992, n. 179. In conformità di quanto stabilito dall’art. 14 della citata Convenzione … omissis … circa i criteri per la determinazione del prezzo degli alloggi, si precisa che il Comune di Roma … con comunicazione … ha approvato: il prezzo massimo di cessione ...”. Tuttavia, se si esamina il testo integrale della Convenzione citata, in assenza del quale è impossibile esprimersi in maniera risolutiva sulla questione, in merito alla determinazione dei canoni di locazione, emerge quanto segue.
In particolare, all’art. 14 della più volte menzionata Convenzione, intitolato “… CRITERI PER LA DETERMINAZIONE DEL PREZZO DI CESSIONE DEGLI ALLOGGI, OVE CONSENTITO, NONCHE’ PER LA DETERMINAZIONE E LA REVISIONE PERIODICA DEI CANONI DI LOCAZIONE art. 35, comma 8, lettera E, legge 865/71 ...”, alla lettera B) “… Determinazione e revisione periodica del canone di locazione …” si stabilisce che “… Per quanto attiene alla determinazione del canone di locazione ed alla sua revisione periodica, si fa espresso rinvio alle norme della legge 27 luglio 1978, n. 392 ed eventuali successivi adeguamenti e modifiche ...”. E ancora, all’art. 15 della predetta Convenzione, nella parte relativa alle sanzioni si prevede che “… nel caso di cessione o di locazione di alloggio per un corrispettivo superiore a quello determinato secondo il criterio di cui all’art. 14 della presente Convenzione, sarà applicata al superficiario inadempiente una penalità pari a quattro volte la differenza tra il corrispettivo da richiedere in base alla presente concessione e quello effettivamente richiesto, avendosi riguardo, per quanto concerne l’ipotesi di locazione, alla durata legale del contratto ...”. A ben vedere, quindi, la Convenzione in esame presenta un chiaro riferimento alla determinazione del canone di locazione applicabile il quale deve essere elaborato secondo quanto stabilito dall’art. 35, comma 8, lettera E, legge 865/71, nonché una penalità in caso di applicazione di un corrispettivo in spregio dell’art. 14 della predetta Convenzione; recita, inoltre, il comma 8, lettera E della Legge 865/71 “… La convenzione deve prevedere … omissis … i criteri per la determinazione e la revisione periodica dei canoni di locazione, nonché per la determinazione del prezzo di cessione degli alloggi, ove questa consentita ...”. Infine la Convenzione rinvia alla legge 27 luglio 1978, n. 392 (Equo Canone) e successive modifiche per individuare i parametri della appena descritta determinazione dei canoni di locazione.
In relazione all’applicabilità o meno dell’Equo Canone all’Edilizia Convenzionata è utile riepilogare quanto segue.
Quando venne approvata la Legge 392 del 27 luglio 1978, altrimenti nota come Legge sull’Equo Canone, l’intento del Legislatore fu, originariamente, quello di escluderne l’applicazione, tra le varie, anche per la categoria che ci interessa, prevista alla lettera c) dell’art. 26 della Legge 392/1978, per gli alloggi costruiti secondo la disciplina dell’Edilizia Convenzionata, per le quale si dovevano applicare le prescrizioni previste nelle Convenzioni al fine di soddisfare quanto imposto dalla lettera e) del comma 8 dell’art. 35 della Legge 865/1971, che avrebbero potuto stabilire dei criteri diversi rispetto a quelli della Legge sul c.d. “Equo Canone”.

Successivamente, la Corte Costituzionale con la sentenza n° 155 del 28 gennaio-11 febbraio 1988, dichiarò l’illegittimità costituzionale della lettera c) dell’art. 26 della Legge 392/1978 e, di fatto, gli alloggi di Edilizia Convenzionata, ai fini della Legge sulle Locazioni, vennero equiparati agli alloggi “ordinari”, senza che questo fosse in contrasto con la lettera e) del comma 8 dell’art. 35 della Legge 865/1971, dato che, comunque, la stessa Legge 392/1978 stabiliva un limite al canone massimo di locazione.

Con l’entrata in vigore della Legge 431 del 9 dicembre 1998, che con il suo art. 14 ha abrogato, per le locazioni abitative, tutti gli articoli della Legge 392/1978 e, con loro, il c.d. “Equo Canone”, ha conservato lo stesso ambito di applicazione della Legge 392/1978 (abrogata) nella sua formulazione successiva alla sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, mantenendo quindi la sua applicabilità anche per l’edilizia convenzionata.

In sintesi, questo è stato l’iter legislativo adottato per l’individuazione dei parametri di determinazione del canone di locazione relativa agli alloggi di edilizia convenzionata.

Esame della sentenza delle SS.UU. Della Suprema Corte n° 18135/2015 e recepimento della stessa con deliberazione n. 33 del 17 dicembre 2015 di Roma Capitale e ss. Sotto il profilo giurisprudenziale, considerata la vastità della materia, si procede per brevi cenni al fine di esporre in maniera sintetica la disciplina di riferimento e l’evoluzione apportata dalla nota sentenza n. 18135/2015 emessa a Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione, nonché il conseguente recepimento della stessa pronuncia nel territorio di Roma Capitale.
I giudici della Suprema Corte con la predetta sentenza hanno chiarito che sussiste il vincolo del “… prezzo massimo di cessione ...” dell'immobile costruito in regime di edilizia agevolata non soltanto per il primo trasferimento ma anche per tutti quelli successivi al primo, salva la possibilità di rimuoverlo, trascorsi 5 anni dall'acquisto, con il procedimento amministrativo previsto dall'art. art. 31 della L. 448/98, al comma 49 bis, mediante il pagamento di una sorta di “indennizzo” al concedente, la cosiddetta affrancazione.
La Suprema Corte ha così interpretato il fitto intrico di norme dettate nella materia che, susseguitesi negli anni in maniera inorganica, avevano determinato un’ambiguità giurisprudenziale: da un lato, infatti, si era formato un indirizzo che aveva “...valorizzato soprattutto l'autonomia negoziale delle parti, quale principio informatore generale in materia; pervenendo alla conclusione che sia i divieti di alienazione, che i criteri normativi di determinazione del prezzo (o del canone di locazione) fossero applicabili, soggettivamente, solo al primo avente causa ...”.
A questo orientamento si contrapponeva “…l’opposta tesi secondo cui la disciplina vincolistica promana direttamente da norme imperative, anche se per il medio di convenzioni tra Comune e Concessionario (a contenuto, peraltro, predeterminato dalla legge ed inderogabile) ...”.
Secondo tale orientamento, dunque, la violazione delle norme relative al prezzo c.d. "calmierato" per la vendita degli alloggi avrebbe determinato la nullità parziale delle convenzioni stipulate tra l'ente concedente ed il concessionario (ex art. 1418 c.c.) alle quali sarebbe stato inserito automaticamente il vincolo del corrispettivo imposto dalla legge (ex artt. 1339 e 1419, comma secondo c.c.).
I giudici delle Sezioni Unite, chiamati a dirimere la controversia, hanno ritenuto che lo snodo fondamentale per una corretta interpretazione normativa complessiva sia da ricercare nell'introduzione dell'art. 31, comma 49 bis, della legge n.448/98, con cui è stata concessa la facoltà di rimuovere i vincoli relativi al prezzo massimo di cessione nell'ambito dei programmi di edilizia economica e popolare; norma che se non fosse riferita anche ai trasferimenti successivi al primo, perderebbe di senso.
Hanno affrontato, quindi, la distinzione tra il regime di "inalienabilità" previsto per le convenzioni relative agli immobili in diritto di superficie e quello riferito agli alloggi in pieno diritto di proprietà, considerando che detta inalienabilità non è prevista per le prime, perché non espressamente contenuta nel comma VIII dell'art. 35 della L. 865/71, diversamente da quanto disposto per la seconda tipologia, dal successivo comma XV del medesimo articolo.
Per entrambe le fattispecie, invece, sussiste "… il vincolo alla determinazione del prezzo - che - discende, in ogni caso, dalla legge ..." per le convenzioni disciplinate dalla L. 865/1971.
La possibilità di rimuovere i vincoli "… relativi al prezzo massimo di cessione (nonché del canone massimo di locazione) contenuti in una convenzione P.E.E.P. - hanno affermato le SS.UU. - è subordinata a tre presupposti: 1) che siano decorsi almeno 5 anni dal primo trasferimento; 2) vi sia la richiesta del singolo proprietario; 3) la determinazione della percentuale del corrispettivo sia calcolata in base a parametri legali da parte del Comune ...". Emerge, dunque, con chiarezza per gli ermellini che "… il vincolo, quindi, non è soppresso automaticamente a seguito del venir meno del divieto di alienare ma, in assenza di convenzione ad hoc, segue il bene nei successivi passaggi, a titolo di onere reale con naturale efficacia indefinita ...".

Successivamente, con deliberazione n. 33 del 17 dicembre 2015 e ss., Roma Capitale ha avviato le procedure dirette all'eliminazione dei vincoli riferiti alla determinazione del prezzo massimo di cessione nonché del canone massimo di locazione degli alloggi realizzati in aree P.E.E.P., approvando lo schema di convenzione da valere esclusivamente in capo ad ogni vendita successiva al primo atto di trasferimento, (quello cioè intervenuto tra concessionario/cessionario dell'area e socio/acquirente) decorsi cinque anni dal primo atto di trasferimento, alla luce delle novità legislative introdotte dalla L. n. 448/1998, anche al fine di conformarsi alla appena esaminata sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 18135 del 16 settembre 2015.

Sul tema la giurisprudenza di merito più recente, in ultimo quella della curia romana, si è orientata nell’accogliere le richieste di restituzione dei canoni e adeguamento degli stessi alla disciplina richiamata laddove non vi sia il rispetto dei limiti stabiliti. Ad esempio, secondo il Tribunale di Roma sez. VI Dott.ssa Caretta che si è pronunciato con ordinanza del 9 aprile 2019 “ … è indubbio che trattandosi di contratto di locazione di immobile di edilizia convenzionata il canone di locazione vada rideterminato ...”. Ancora più incisivo l’indirizzo elaborato in un’altra recente pronuncia del Tribunale di Roma emessa il 19 luglio 2019.
Nel caso affrontato dal Tribunale, la ricorrente-conduttrice chiedeva la restituzione dei canoni di locazione pagati in eccesso, dimostrando che la resistente era proprietaria superficiaria dell’unità abitativa locata; l'immobile era stato costruito su area gravata da diritto di superficie concesso dal Comune di Roma ad un’impresa costruttrice del complesso immobiliare, nell'ambito di un piano di edilizia economico popolare ex art. 35, legge n. 865/1971, regolato da apposita convenzione, ed il canone di locazione era stato determinato in maniera illegittima.
In virtù di ciò, la proprietaria aveva infatti eccepito l'improcedibilità della domanda, a seguito della richiesta di affrancazione, come disposto in casi simili in altre decisioni dal Tribunale di Roma.
In effetti, la nuova legge, attraverso l'art. 25-undicies ha modificato i commi 49-bis e inserito il 49-quater dell'art. 31 L. 448/1998, determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché del canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di cui all'articolo 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e successive modificazioni, per la cessione del diritto di proprietà, stipulate precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992, n. 179, ovvero per la cessione del diritto di superficie, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con atto pubblico o scrittura privata autenticata, stipulati a richiesta delle persone fisiche che vi abbiano interesse, anche se non più titolari di diritti reali sul bene immobile...".
Tale legge pertanto offre la possibilità di effettuare la rimozione di questi vincoli anche da parte di soggetti non più titolari di diritti reali sull'immobile, versando il relativo corrispettivo per l’affrancazione.
Infatti, (comma 49-quater) "… in pendenza della rimozione dei vincoli di cui ai commi 49- bis e 49-ter, il contratto di trasferimento dell'immobile non produce effetti limitatamente alla differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato. L'eventuale pretesa di rimborso della predetta differenza, a qualunque titolo richiesto, si estingue con la rimozione dei vincoli secondo le modalità' di cui ai commi 49-bis e 49-ter ...". Il Tribunale di Roma con la sentenza del 19 luglio 2019 in esame, ha evidenziato che la predetta normativa intervenuta è "… al dichiarato fine di agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari ...".
Precisa però il Tribunale che "… appare di chiara evidenza che la disciplina dettata per il caso di pendenza dei vincoli si riferisce unicamente ed espressamente alla sola ipotesi di trasferimento e non anche di godimento o locazione ...". Specifica altresì il Tribunale che "… non può farsi riferimento né al criterio analogico, né che sussiste un vuoto normativo, essendo espresso il solo riferimento ai contratti di trasferimento ...". Pertanto, il Tribunale, una volta accertato, determinato e adeguato il canone di locazione nel rispetto della convenzione, condannava la proprietaria alla restituzione dei canoni pagati in eccesso.

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Orientamento del Tribunale di Roma verso il principio dell’indebito arricchimento/abuso del diritto; intervento del Governo nel 2018

Con ordinanza del 17 aprile 2018 (RG 63857/2016 sez. X) il Tribunale di Roma assumeva un orientamento improntato a valutare anche “… un indebito di arricchimento … abuso del diritto ...” (pag. 12 della citata ordinanza) dell’acquirente di un immobile in regime di edilizia convenzionata laddove lo stesso esercitasse la pretesa di ottenere “... la restituzione del prezzo pagato in eccesso rispetto al prezzo massimo di cessione ...” (pag. 15 ordinanza). Prosegue il Tribunale di Roma affermando che “… Tale scelta ha altresì determinato una sproporzione o ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale (Cass. 29949/2017) ...” e ritenendo che “… La scelta operata dai ricorrenti appare contraria ai doveri di buona fede e correttezza nonché ai principi dell’ordinamento in quanto essi chiedono la restituzione del prezzo eccedente quello massimo conservando altresì la possibilità di richiedere l’affrancazione preferendo così obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. Anche se tale intento non può definirsi emulativo la scelta dei ricorrenti dell’opzione della restituzione del prezzo eccedente quello massimo in luogo dell’affrancazione, per la loro utilità con aggravamento ingiustificato della posizione dei resistenti, deve considerarsi lesiva del principio di buona fede e costituisce pertanto un’ipotesi di abuso del diritto ...” (pag. 16 ordinanza). Conclude il Tribunale di Roma dichiarando che “… La pretesa dei ricorrenti deve pertanto essere limitata alle somme necessarie per ottenere l’affrancazione … omissis … Quest’interpretazione è l’unica che consente un’applicazione della norma conforme alla Costituzione altrimenti determinandosi un’ingiustificata disparità di trattamento ...” (pag. 17 ordinanza).

Come emerge dall’ordinanza analizzata, il Tribunale di Roma si è orientato nel senso di tutelare anche il dante causa da richieste sproporzionate ed eccessive, ritenendo che la pretesa avente ad oggetto la restituzione del prezzo eccedente avrebbe creato un sacrificio economico in contrasto con la Costituzione. Infatti, l’ordinanza in commento arriva a condannare il resistente-dante causa al pagamento di una somma pari al valore (di gran lunga minore) dell’importo dovuto per le operazioni di affrancazione e non al pagamento spropositato del prezzo eccedente. Ora, è evidente che tale provvedimento riguarda un’ipotesi di cessione di immobile in edilizia convenzionata, caso diverso dal nostro, che invece, attiene alla locazione di un’unità abitativa in regime di edilizia convenzionata. E’, tuttavia, significativo che la giurisprudenza di merito abbia giudicato fondata l’eccezione sull’abuso del diritto/indebito arricchimento mossa dal resistente dante causa, ritenendo più corretto e idoneo accordare e riconoscere non la restituzione del prezzo eccedente, bensì un importo pari alla somma dovuta per l’affrancazione, somma, per l’appunto notevolmente inferiore a quella richiesta dal ricorrente. Tale indirizzo potrebbe sollevare alcune perplessità sulla correttezza dell’entità delle somme di cui la sig.ra Sansone pretenderebbe la restituzione. Nonostante quanto riportato, a scanso di fraintendimenti, si ribadisce che l’ordinanza che lascerebbe trapelare nuovi spiragli interpretativi si concentra su un’ipotesi di cessione e non di locazione.

Nel 2018 vi è stata un’ulteriore evoluzione della disciplina in esame. Con l’art. 25 undecies della Legge n.136, 17 dicembre 2018 (di conversione del D.L. n.119, 23 ottobre 2018,) è stato modificato l’art. 31 della Legge n.448/1998 sostituendo il comma 49 bis ed inserendo, dopo il comma ter, un nuovo comma 49 quater ed emanando, in tal modo, una specifica disciplina sul punto.
Di seguito si riportano le modifiche più significative. La prima, nonché più rilevante, è quella che conferma l’interpretazione fornita dal Tribunale di Roma con ordinanza 17 aprile 2018 e attenua i risvolti pratici della pronuncia delle Sezione Unite della Cassazione del 2015, prevedendo che la rimozione del vincolo (mediante la procedura di affrancazione) estingue il diritto all’eventuale pretesa di rimborso della differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato. Coerentemente con tale modifica, la novella sancisce la legittimazione ad effettuare la procedura di affrancazione, di tutti i soggetti “… che vi abbiano interesse ...”. In buona sostanza, da oggi il venditore, che rischiava di subire una causa ed all’esito una condanna salatissima alla restituzione della differenza di prezzo, può evitare, o meglio prevenire, direttamente tale rischio procedendo esso stesso alla richiesta di rimozione del vincolo, ovviamente sostenendone i costi ma senza, quindi, dover versare tale importo all’acquirente – attuale proprietario che, pertanto, cessa di essere l’unico soggetto abilitato in tal senso. Al riguardo merita una menzione particolare il secondo comma del citato art.25 undecies: “… le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche agli immobili oggetto dei contratti stipulati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto ...” che sancisce la retroattività di tale riforma, senza la quale l’efficacia concreta della stessa sarebbe stata sostanzialmente vanificata se si considera che la quasi totalità degli immobili interessati riguarda compravendite antecedenti il settembre del 2015.
La seconda novità attiene alla modifica della qualificazione giuridica della parziale invalidità della compravendita, relativamente alla differenza di prezzo, in pendenza (e quindi fino alla conclusione) della procedura di affrancazione. Mentre dalla pronuncia della Suprema Corte scaturiva una “… nullità ...” parziale dell’atto, la riforma specifica tratta di “inefficacia” (testualmente “… non produce effetti ...”). Una precisazione che poco rileva sotto il profilo sostanziale poiché la differenza di prezzo rimane comunque rivendicabile dall’acquirente – seppur a diverso titolo – in mancanza della rimozione del vincolo, ferme però restando le conseguenze che potrebbero prodursi in ambito processuale sulle cause in corso (ipotizzando il rigetto delle domande fondate sulla nullità, anziché sull’inefficacia, forse, però sottovalutando sia la possibilità di precisazione della domanda in corso di causa, specie se derivante da una riforma sopravvenuta, sia la circostanza che l’inefficacia costituisce un minus rispetto alla nullità con la conseguenza che il Giudice adito potrebbe comunque ritenerla ricompresa in essa).

Sul punto deve, comunque, osservarsi come la riforma in questione potrebbe condurre a una soluzione più in linea con i criteri di giustizia sostanziale, evitando il verificarsi di un ingiustificato arricchimento degli acquirenti e scongiurando in tal modo lo squilibrio posto alla base del principio enunciato; ciò, però, omettendo comunque di risolvere la questione attinente alla speculazione a suo tempo operata dalle parti venditrici mediante l’alienazione di beni che la normativa aveva destinato a fini “sociali” ben diversi, proprio come posto in rilievo nella nota pronuncia della Suprema Corte del 2015.

Conclusioni
Alla luce di quanto esaminato ed emerso dalla ricerca fin’ora condotta, risulta difficile fornire un parere risolutivo sulla questione in oggetto. Sembra potersi rilevare che sussisterebbe il diritto vantato dal conduttore a vedersi riconoscere una riduzione dei canoni mensili di locazione applicati in considerazione della circostanza secondo la quale l’immobile oggetto della vicenda risulta essere parte di un complesso edilizio edificato in regime di edilizia agevolata-convenzionata (come emerge dalla Convenzione più volte richiamata).
Bisogna, tuttavia, valutare, in quale misura (importo dei ratei del canone di locazione) la richiesta dal conduttore sia legittima e trovi eventualmente il suo fondamento in quanto – come si è potuto riscontrare nel corso della trattazione dell’argomento – si preannunciano degli scenari giurisprudenziali, soprattutto sul territorio di Roma, che sembrerebbero tenere conto anche di un bilanciamento tra gli interessi in gioco contrapposti tra le parti, al fine di evitare un “… abuso del diritto ...” o “… indebito arricchimento ...” che potrebbe determinarsi qualora si riconoscesse il diritto all’avente causa alla restituzione del prezzo in eccedenza in luogo della minor somma dovuta per porre in essere le operazioni di affrancazione. Tuttavia, come si è avuto modo già di sottolineare nei paragrafi precedenti, l’orientamento appena riferito è stato talvolta sconfessato da altre pronunzie sempre emesse dal Tribunale di Roma che, invece, hanno, riconosciuto il diritto alla restituzione integrale dei canoni versati in eccesso dal conduttore, provvedimenti che tra l’altro si riferivano prettamente alle ipotesi di locazione e non di alienazione come nel caso dell’ordinanza del 17 aprile 2018 emessa dalla Decima Sezione del Tribunale di Roma. Di fronte a un quadro così complesso appare tutt’oggi arduo prevedere in quale direzione la disciplina in esame possa volgere. Pertanto, non si può escludere che in sede di eventuale giudizio l’Organo giudicante potrebbe riconoscere il diritto alla ripetizione delle somme pagate in eccedenza a titolo di canone di locazione.

Dott. Gabriele Lorizio